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Una pittura per segni e testimonianze

Che io, o qualcun altro, scriva su di lui non è di per se stesso essenziale per Giorgio Celiberti. Ciò che egli sente come necessario è il rapporto che questo interesse causa. La testimonianza critica deve essere una conseguenza. Quel che innanzi tutto deve determinarsi è il corto circuito tra due presenze. Il confronto, al di là delle parole, che ne scaturisce è qualcosa che ha radici in una congenialità solo rafforzata, e prima rivelata, dalla frequentazione. Siffatto meccanismo è alla base della pittura medesima di Celiberti, fondata sempre su di una corrispondenza emotiva con l’altro, e per questo appunto mai ripetitiva a dispetto del suo intenzionale organizzarsi in cicli e del ricorrere lungo gli anni e i decenni di determinati motivi, segno del riemergere di antiche e mai sopite emozioni. Prima di tutto di quella, determinante, che derivò all’artista, nella seconda metà degli anni Sessanta, dall’imbattersi nell’agghiacciante memoria del martirio a Térezin, presso Praga, di migliaia e migliaia di bambini ebrei. Leggendo le poesie, guardando le tracce grafiche lasciate dalle vittime innocenti chiuse nel carcere nazista. Celiberti sentì suo quel dolore struggente e quella capacità di affermazione della vita nella morte, oltre la morte. E rievoco siffatte ben note circostanze per ribadire che l’iterazione di certi motivi non è per Celiberti un fatto di cifra stilistica. “ci torno spesso con la memoria” – ha affermato l’artista, appunto in relazione a quelle tragiche rimembranze, rispondendo ad un’intervista di Alcide Paolini – “devo dire anzi che quello fu il momento più drammatico e risolutivo della mia storia di pittore: da quel momento io ho visto tutta la mia pittura per segni e testimonianze, come qualcosa che meritasse di essere riferito, perché già avevo operato una fatica per vivere e sopravvivere”. E infatti il suo lavoro precedente, sia quello più esplicitamente aperto al fenomeno, sia quello, di matrice informale, più reticente, e più coinvolto con la tensione esistenziale, s’era concentrato in differenti temperie, più oggettive prima, poi più soggettive, tuttavia sempre entro un dialogo con le cose attestato sulla flagranza del vedere, e del vedere-sentire. Per cui l’uscita di Celiberti dal clima, ormai pericolosamente epigonico, dell’informale non fu solo una scelta formale, di intenzionale superamento di un’effusione che rischiava di perdere mordente espressivo, ma un sostanziale cambio di registro, di motivazioni e di obbiettivi: dal particolare all’universale, nel senso della comunanza che unifica l’uomo d’oggi con quello di ieri e con quello di domani, in un contesto insieme non materialistico e non trascendente, invece naturalmente conscio – sono sue parole – “della perpetuità dell’uomo e del suo essere effimero o”, se si preferisce, “della effimera perpetuità del genere umano”. Ecco la causa vera, profonda del non usurarsi del ricordo dei segni visti nei lager: segni già, essi stessi, oltre la contingenza, nel dar corpo – nella congiuntura, certo, di quegli spaventosi eventi – a una continuità di memoria, quindi di vita. “Quei muri, quelle tragiche finestre, quei cuori rossi e bianchi, quelle cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri” visti a Tèrezin ad Auschwitz già allora scavalcavano la testimonianza individuale. Meglio: in essa si fissava, “per segni e testimonianza”, qualcosa che aveva risonanze generali. «Cosa sono le “scene di vita”?». Risponde ancora Celiberti a Paolini: «apparizioni di immagini, immagini ricordate, immagini diario, immagini sogno, rabbia, tormento, speranza, quante ne vuoi, quante l’ispirazione mi detta». E se, ovviamente in una fase iniziale, a ridosso della rivelazione di quelle reliquie testimoniali, la figurazione è tesa, con grovigli inestricabili, contrasti violenti di luce ed ombra, crudi, incisivi (mai però, neppure allora, non dominata dalla coscienza, con qual sedimentazione che già portava fuori dalla mera documentazione o del semplice, ancorché intenso, grido di protesta), presto non solo la decantazione si accentua, con più larghe e diverse implicazioni, anche tematiche, e soprattutto di linguaggio, ma si verifica uno sviluppo sostanziale verso soluzioni nuove, di tecnica e di immagine, dai Muri agli Affreschi. Non è qui il caso di ripercorrere le varie tappe di tale vicenda espressiva che, attraverso ormai un quarto di secolo, ha portato ai risultati attuali, dei quali questa mostra offre alcuni esempi, su cui quindi è piuttosto opportuno soffermarsi. Per sottolineare, prima di tutto, e sulla linea proprio di quanto s’è appena detto, quanto il primitivo repertorio abbia acquistato in evocatività, in sintesi, con sciolta articolazione di nessi, in una dialettica stringente tra figura e fondo e con il ricorso, a volta a volta, all’ingrandimento accentuato, e su superfici molto grandi, di pochi segni, oppure alla distribuzione sulla tela di più simboli, conseguentemente più minuti. Con effetti diversi, corrispondenti a diverse intenzionalità, pittoriche, ma nel senso comprensivo che la pittura ha per Celiberti, che tutto in essa realizza (« Non saprei fare altro, non ho mai fatto altro. Tutto ciò che non è stato pittura, per me è stato un vuoto che doveva essere riempito dalla pittura»; «sono profondamente convinto della necessità di una immagine organica e sensibile, dominata coi colori e col segno, tutta direttamente eseguita senza altri artifici che quelli, antichissimi, della propria mano: io, la tela, i colori, i pennelli»). Se alcuni segni continuano a ricorrere, ce ne sono peraltro altri nuovi che sono andati affacciandosi, persino derivati dalla segnaletica stradale (così il cartello del diritto di precedenza in Triplicità e cuori), che tuttavia vengono inglobati in una significanza unitaria e unificata, ove tutto è ricondotto su di un registro non occasionale (e quindi neppure «moderno», nell’accezione riduttiva del termine). Il messaggio di Celiberti resta, nell’intonazione, arcaicamente essenziale: punta – fuori, lo si è detto, di ogni ontologia - a dar forma ad aspirazioni primarie, proprie dell’uomo in quanto uomo, e intimamente radicate nel suo essere. «Ecco, io non ho più tempo per cercare le cose che alla fine non sono dentro di me», ribadisce l’autore nell’intervista più volte citata; «cerco di placare quella angoscia che si può chiamare in tanti modi, la paura della guerra, la paura della violenza nella pace, per la congiura della civiltà tecnologica e consumistica, la paura del vuoto morale e spirituale in una nuova terra di nessuno». Però, aggiunge subito, «comunque si chiami questa angoscia, è quella che voglio placare, dando immagini sempre più nitide e innamorate, parole di figure che mi consolino e che, rasserenando me, amino come fratelli tutti coloro che guardano un mio quadro». E con ciò si entra in un territorio che mi sta molto a cuore: quello del «destino del progetto» (come m’è capitato di chiamarlo, riecheggiando liberamente il titolo di un vecchio, fondamentale saggio di Argan) nell’arte d’oggi. Dove per progetto si intende una risposta di vita alla morte, pur nella coscienza dell’inevitabilità della morte stessa, cioè un intervento in qualche modo attivo, propositivo che contrasti la rinuncia e la subordinazione passiva alla cultura della morte ( che è altra cosa dalla morte), e non certo, nei termini, oggi improponibili, d’una progettualità astrattamente razionale. Invece, nella frizione con quanto anche di negativo è in noi e intorno a noi, da fronteggiare con le armi proprie di ciascuno: con quelle quindi anche dell’arte e della pittura. Come infatti continua a fare Celiberti, che pure per ciò mi pare da segnalare tra le presenze significative dell’arte d’oggi. E non, naturalmente, per un fatto solo di contenuti (anche se, lo si è visto, essi sono per l’artista friulano tutt’uno con la forma, che non è mai semplice veicolo di senso), ma anche, anzi soprattutto, per la modalità e i ritmi del suo fare pittura. Se il quadro, nei suoi esiti finali, quelli che chi guarda ha di fronte, non è mai gridato, se piuttosto mostra i toni di una lirica elegia, che trasferisce colori e graffiti in un clima di poesia, seppur, certo, caldamente partecipata, l’approdo a siffatto momento conclusivo è scandito da un’urgenza fattuale, prima che espressiva, che è da tener ben presente per appieno comprendere (anzi per non fraintendere) il suo risolversi in quelle immagini. Celiberti stende sulle superfici delle malte sulle quali poi interviene manipolandone gli spessori e trasformando l’inerzia della materia in qualcosa di vivo con il colore e il segno: non solo «disegnato», questo invece impresso, o graffiato, in quello che ormai non è più il diaframma illusivo del quadro, ma il muro conci scontrarsi, su cui lasciare la memoria diretta della propria appassionata, e struggente, vitalità, risolta tutta nella pittura, in una pittura, come sempre, «per segni e testimonianze». Che, per l’energia che la informa, può debordare negli spazi quotidiani, anche i più dilatati, senza abdicare all’icasticità metaforica: come nell’affresco, eseguito nel 1991, che avvolge una sala di 500 metri quadri dell’Hotel Kawakyu a Shirahama, in Giappone, veramente un «inno alla vita, alla libertà, all’amore», come recita il titolo, didascalia aderente, e non letteraria, dell’immane impresa. Luciano Caramel (in Giorgio Celiberti, catalogo della mostra, Bologna, 1994)

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